Da
Storie in "Le
parole per farlo, donne al lavoro nel postfordismo" a
cura di Adriana Nannicini (Derive Approdi, Roma, 2002) vi proponiamo
la narrazione appassionata di una scienziata nel suo andirivieni fra vita
e lavoro.
VITA E TRASFORMAZIONI DEL PARADIGMA DELLA BRAVA BAMBINA
di anonima

Mary Cassat
Nel
raccontare una storia cominciata vent'anni fa, non racconto cosa significa
essere uno scienziato, non assumo infatti quell'ottica più oggettiva
che mi pare sia l'unica che possa dar conto di cosa vuol dire fare il
ricercatore
racconto qualcosa che oggi non voglio più fare,
come sono stata una scienziata, come sono transitata in vari e diversi
laboratori di ricerca, come e perché oggi voglio fare altro e vivere
diversamente.
La
cornice
Ho lavorato in tre laboratori di ricerca biologica, a Milano, poi in Svizzera,
infine negli USA. Tornata a Milano, lavoro in Università, tra docenza
e ricerca.
La prima esperienza, a Milano, è stata semplice e lineare
E' stata l'epoca di Rambo. Quando passavo ogni notte al microscopio, guardavo
i vetrini con il rock nelle cuffie, (era quella che tanto tempo fa mi
appariva come la "vera vita") poi alle 4 prendevo la macchina
e andavo a casa, nella città deserta.
Dopo, in Svizzera, la situazione diventava già quella in cui cominci
a fare qualcosa tu direttamente, e infine negli USA ha voluto dire arrivare
e dopo 15 giorni andare a casa a fare una pennichella tra l'una e le quattro,
clamoroso rallentamento di ritmo! Si dimostrava che non ero un personaggio
di scienziata classica, un'immagine da laboratorio americano, succedeva
che la vita da laboratorio già era diventata un'estrema fatica.
Sono stata una persona diversa nelle tre situazioni.
A Milano ho vissuto una dimensione rocambolesca, magic of life, è
accaduto qualcosa fuori norma: ho fatto una grande scoperta nel mio campo
di ricerca.
Il
pensiero e il mestiere
Il laboratorio rappresenta la grande possibilità di fare attività
intellettuale e di pensiero. Non pensiero puro, teorico, ma diretto a
qualcosa di pratico, oggettivato.
sei tu che decidi come lo vuoi
fare, alla fine avrai un risultato che dovrai valutare, su cui verificare
la tua idea. Questo modo di lavorare mi ha sempre dato un senso smisurato
di appartenenza ad un'impresa; fare qualcosa di grande, che è tale
non necessariamente per l'umanità, ma lo è per me che lo
sto facendo. Lavorando a qualcosa di cui non conosci l'esito, il risultato
potrà esserci oppure no, tu non lo sai mai. E' questa incertezza
sugli esiti che mi ha dato il senso di misurarmi con una sfida. Una grande
sfida a me stessa, in cui il mio lavoro è elaborare un prodotto
mentale. Se sono andata in laboratorio alle tre del mattino, per verificare
un risultato parziale e numerico, una parentesi che mi poteva dire che
avevo sbagliato tutto
era perché provavo una grande eccitazione:
se un'idea era giusta allora potevo incastrarne un'altra, e dopo ancora
un'altra
E' una forma di pensiero diversa da quella che si usa studiando.
Sia che stia preparando una lezione o studiando un pezzo, il pensiero
lo posso rifinire, limare, ripulire, posso avere delle intuizioni. Là
invece il mio pensiero può rivelarsi del tutto sbagliato. L'emozione
che mi ha eccitato è questa
Finchè ho lavorato così
non ho avuto storie d'amore, erano solo episodi di sesso. Vivevo già
una vicenda emotiva, nessuno mi vedeva quando uscivo dal laboratorio alle
6 del mattino, ma io tra me e me mi sentivo come un eroe, i miei desideri
soddisfatti.
La
costrizione e il cambiamento
Arrivata in America è successo il patatrac: mi sono innamorata.
Attraversare l'innamoramento per una persona mi ha portato a riprendere
un pezzo della mia libertà. Improvvisamente ho sentito il peso
di una costrizione che ho subito per anni: la spinta a dover essere brava,
il dover sempre dare, dover essere, dover produrre.
Subìvo
e accettavo una costrizione perchè la pressione che sentivo su
di me assumeva dei contorni etici, un valore elevato e condiviso, l'imperativo
categorico che pronunciava era diretto infatti verso la produzione.
Improvvisamente non ho più avuto voglia di rientrare dal laboratorio
alle 3 di notte, trovare in casa solo un vasetto di yogurth, fumare una
sigaretta e andare a dormire. Ho cominciato ad avvertire una fatica crescente.
Non ho più avuto voglia di non avere tempo.
Ho provato a ribellarmi alla forza costrittiva che proveniva tutta dal
mio interno.
La fatica immane della mia vita non è stata
il lavoro in senso stretto, ma provare il senso del dolore.
La
brava bambina
Mi sono accorta così che ero diventata Biancaneve, che si accorge
di vivere qualcosa che non è precisamente la favola dei Sette Nani.
Non è la favola che ha sentito raccontare da piccola: "sei
brava" e poi negli anni "sei fantastica, un seminario per gli
studenti completo come te non lo fa nessuno, sei la più intelligente
di tutti
" diventa anzi una favola perché nessuno la
sta pagando, né la deve pagare, nessuno le da un posto. Per qualche
anno si è sentita ripagata dal riconoscimento che la circonda.
Dopo un anno di lezione gli studenti mi hanno valutato più brava
del grande capo. Intangibilmente ripagata perché la mia posta in
gioco era esattamente quella: il senso del dovere, il desiderio di essere
brava.
Il senso di dover essere come una bambina, e in fondo finchè ero
giovane ero una bambina, perché ero una giovane di belle speranze.
E' come se avessi continuato a comportarmi e a sentirmi come una bambina
anche una volta cresciuta; per cui se andavo in America dal capo stronzo
e carogna io continuavo a comportarmi come una bambina, quella che arriva
con il suo vestitino col collettino e incontra papà, peccato che
io avessi già trent'anni e lui cinquantadue: nonostante fosse adulto
più che a sufficienza anche lui, nella vita professionale mi ha
fatto un sacco di stronzate. La mia attitudine emotiva invece persisteva
ed insisteva ad essere quella della piccola bambina che fa tutto bene,
fa sempre del suo meglio (fino alle 3 di notte) per cui mamma e papà
le diranno certamente quanto è brava.
Femminilità
e laboratori
Il laboratorio all'inizio era in sintonia con le mie esigenze: assolutamente
non richiedeva femminilità, anzi. E' un mondo dove si vive tutto
il giorno in camice, sporco di acidi. Un mondo che suppone che tu non
ti occupi di taglio di capelli, di trucchi, perché si suppone che
tu ti stia occupando di cose molto più importanti.
Mi nascondevo dentro una tuta da lavoro. Diventavo asettica in mezzo agli
acidi, ai coloranti, e i gesti erano tutti relativi a spostare le provette,
sudare e correre. In quel periodo io mi sentivo Rambo. Ammazzavo ratti,
toccavo la radioattività con le mani. Ero rude, manuale, tecnica;
non avevo né tempo né testa per cose da donnicciole.
Il senso di onnipotenza che provavo era di chi è convinta che basta
essere "brava" per diventare un uomo, che non ci sono grandi
difficoltà nelle diverse sfumature dell'identità. Ai miei
occhi non c'erano uomini e donne, solo persone in un mondo totalmente
neutro.
Dopo, quando sono uscita dall'autostrada su cui stavo correndo, ho vissuto
l'imbarazzo di provare ad inventarmi un rapporto con un'immagine di femminilità.
Il
Capo
Oggi mi piace preparare le lezioni per gli studenti, la condizione per
dar vita e conservare questo piacere è che nessuno mi obblighi
a farlo. Appena mi trovo dentro un'istituzione rivedo il mio babbo che
mi dice cosa devo fare e lì succede un gran patatrac. Se oggi mi
sono appropriata di quel processo lavorativo che è la lezione,
e la considero una libera espressione di me stessa, è perchè
nelle condizioni attuali non c'è nessuno a cui devo rispondere,
a cui devo adeguarmi, se non a loro, agli studenti, che imparino qualcosa,
o a me, che mi diverta a costruire connessioni cognitive per i ragazzi.
Mi diverto finchè non c'è di mezzo una figura autoritaria
maschile, se compare perdo tutti i miei gradi di libertà e sono
spacciata. Ormai mi è chiara la natura di questa sorta di incastro
relazionale, posso smussare i contorni di questo comportamento, ma non
riesco a modificarlo nei suoi fondamenti: io non faccio la donna, ma sempre,
inesorabilmente, faccio la bambina. Solo l'idea di sedurre il capo mi
pare blasfema! Automaticamente io torno a riproporre la battuta "
cerco di fare quello che ti piace, così tu sarai contento di me!"
Forse avrò portato con me, nell'andarmene, un fantasma: entrando
in un'istituzione e incontrando un certo tipo di figura maschile automaticamente
io tenderò a diventare quello che loro vogliono, e quindi una persona
non più libera intellettualmente, qualcuno che non sa più
qual è il suo pensiero, compressa dentro una corazza che inibisce
e ottunde
I fidanzati lavorativi
I fidanzati sono stati tutti e due lavorativi. Sarà un caso? Come
dire che vivendo in un laboratorio 12 ore al giorno, l'unica chance nella
vita è incontrarli lì, oppure per me ha rappresentato la
possibilità di allearsi con una parte meno inquietante e dolorosa
dell'ambiente? Da quando ho cominciato ad avere fidanzati, da quando le
storie di sesso sono scomparse e sono comparse quelle d'amore, l'interesse
per il laboratorio è scemato in caduta verticale.
A mano a mano che una parte di me si ingrandiva, l'altra rimpiccioliva.
Senza il minimo dubbio il lavoro vada come vada, io vorrei il grande amore!
I fidanzati sono bravi tutti e due.. più nel genere "ragazzino"
che in quello "autorità", quello in America addirittura
più giovane di me. Ora è diventato un big guy del mondo
della scienza, quando ci siamo incontrati era già bravo, al mio
sguardo non incarnava né il modello autorità né un
prototipo maschile classico, quanto piuttosto un modello di libertà.
Siamo stati attirati dalla stima, dall'ammirazione reciproca. Lui era
affascinato da me, dalla fama che mi precedeva. Entrambi, quello americano
e quello italiano, hanno esercitato fascinazione su di me dai loro stanzini,
contornati dai loro apparecchi, le loro cellule, tutti e due sempre in
canottiera, sotto il calore che le macchine producono . Il fascino quasi
tangibile di qualcuno che è lì, ma con le sue idee, una
variante libera del fare ricerca. Sono bravi, ma diversamente da me fantasiosi.
Se non fossero stati bravi sono certa che non mi sarei innamorata.
Sullo
stesso tema proponiamo
un'altra storia: di Henriette Molinari ,
docente di Chimica all'Università Statale di Verona e ricercatrice
del CNR
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